Sono trascorsi 75 anni dalla clamorosa fuga degli ufficiali inglesi dal Forte di Gavi. La fortezza era stata trasformata nel Campo di prigionia N° 5 dell’esercito italiano, dedicato in particolare, per l’appunto, agli ufficiali britannici catturati in Nordafrica dal corpo di spedizione italo-tedesco agli ordini di Rommel. A Gavi venivano rinchiusi prigionieri che avevano già tentato la fuga da altri campi di prigionia. Il Forte era quindi considerato fra i campi più sicuri in assoluto. Previsione smentita il 21 aprile 1943, precisamente alle 23. Protagonista della fuga su il maggiore Jack Pringle, raccontata nel suo libro “Colditz last stop”, tradotta per le parti relative a Gavi da Susan Thomas, guida volontaria degli Amici del Forte. L’ufficiale inglese descrive così il suo arrivo al Forte di Gavi: “Il camion salì e si fermò alla base della fortezza. Lì ci diedero l’ordine di scendere, e davanti a noi si si aprì un enorme cancello di ferro. Marciammo dentro al buio, ricordando Dante: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Seguendo un tunnel fradicio con il pavimento fatto di pietre irregolari, uscimmo in un piccolo cortile aperto con delle pareti rocciose sui quattro lati. La porta del tunnel fu chiusa dietro di noi e le manette rimosse. Ci portarono dentro una cella al lato opposto di questa parete di roccia e ci fecero l’unica perquisizione completa di tutti i miei anni da prigioniero. Le cuciture dei vestiti furono tagliate per scoprire eventuali nascondigli per mappe. I tubi di dentifricio furono schiacciati. I tacchi delle nostre scarpe furono rimossi per cercare delle monete d’oro nascoste”.

Ol maggiore Jack Pringle

Il maggiore si rese presto conto di quanto il Forte non fosse un campo di prigionia come gli altri: “Presto, ci è parso evidente che non c’era speranza di fuga. Era come se fossimo dentro una scatola di pietra. Non era paragonabile con Colditz (In Germania, ndr) dove fui “ospite” più tardi. Colditz era un castello con una architettura molto complicata che si prestava a piani ingegnosi per la fuga. Gavi, no”. Per questo la fortezza gaviese venne definita “Hell Camp”, cioè “Campo Inferno”, per l’impossibilità di fuggire più che per le condizioni di vita. Dopo qualche tempo, però, i prigionieri inglesi intravidero una possibilità: si accorsero in un condotto che conduceva a una delle cisterne di raccolta per l’acqua piovana situato sotto una delle camere di prigionia. Valutarono che scavando si poteva raggiungere la cisterna e da lì raggiungere lo scarico e il tetto della caserma delle guardie. Per coprire il rumore inevitabile durante lo scavo, come raccontano oggi le guide durante le visite al Forte, gli ufficiali inglesi ottennero di poter suonare qualche strumento musicale durante alcune ore della giornata, ingannando così i loro carcerieri. “Il tetto sul quale dovevamo emergere dal nostro tunnel – ha scritto Pringle nel suo libro – era sotto il tiro di mitragliatrici, perciò avremmo avuto bisogno di una notte piovosa. Abbiamo notato che con la pioggia le guardie tiravano giù il capello e su il colletto del mantello, rilassando la vigilanza. Così il tempo atmosferico doveva dettare la notte per la fuga. Aspettammo. Faceva bel tempo ogni notte. Alla fine la fortuna ci toccò: una sera d’aprile, alle cinque, una fitta nebbia coprì la fortezza. Inoltre, iniziava a piovere forte. Decidemmo che la fuga doveva iniziare alle 22, a metà di un turno di guardia di quattro ore, quando le guardie non erano fresche né perché appena arrivati né perché erano prossime al cambio”. Per uscire dal Forte, i fuggitivi dovettero compiere un salto di quasi dieci metri. Purtroppo per loro, la fuga venne intercettata e solo Pringle riuscì, inizialmente a non farsi catturare e ad arrivare non lontano dal confine svizzero.