Una delle prime commemorazioni dell'eccidio della Benedicta.

Che effetto fa ammazzare un uomo? “Niente. Se credi in un’idea, niente. Io ne ho ucciso uno anche alle spalle. Era un tedesco, andavamo a fucilarlo e Don Berto ha voluto confessarlo. Si sono messi un po’ in disparte, e lui ne ha approfittato per scappare. Ho preso un moschetto dalle mani di un altro e gli ho sparato”. Mansueto Mazzarello, il partigiano “Camèia”, è morto la scorsa settimana a 98 anni a Mornese. Era sopravvissuto all’eccidio della Benedicta e anni fa aveva raccontato la sua esperienza di “ribelle” garibaldino nel libro “Due storie partigiane”, scritto da Gianni Repetto, nel quale venne intervistato insieme a Mario Merlo, di Bosio, partigiano autonomo “Brontolo”, morto lo scorso anno. Era nato in una famiglia contadina con nove figli. Il padre era socialista e, come ha raccontato Mansueto nel libro, “quando c’erano delle manifestazioni fasciste, venivano i carabinieri di Castelletto e lo tenevano un giorno laggiù. Lui non ha mai votato nelle elezioni fasciste, diceva che piuttosto si faceva ammazzare di botte”. “Sono partito per andare soldato il 14 febbraio del ’43 – ha raccontato ancora -, e ho fatto l’addestramento a Ivrea, nel IV Reggimento Alpini. Dopodiché, fatto il giuramento, sono stato destinato ad Aosta…. Quando siamo arrivati in caserma, c’erano quelli più anziani che ce ne facevano di tutti i colori.

Ci facevano fare il cucù sugli armadi oppure correre per la camerata come dei conigli, a qualsiasi ora del giorno e della notte. C’era poi un sottotenente, un certo Blanco Orazio, che durante l’istruzione ci faceva morire. Ma io non ne volevo sapere di tutta quella roba lì, e allora mi facevo picchiare con un sacchetto di sabbia sul ginocchio da Mariin, sicché mi gonfiava e marcavo visita. C’ho scansato il Montenegro in quel modo”. Poi arriva l’armistizio dell’8 settembre 1943 e inizia anche per Mazzarello l’esperienza partigiana: ”E anche se risulta che sono entrato nei partigiani il 14 febbraio del ’44, già dalla fine del ’43 ero in contatto con Ravera, quello che poi è diventato sindaco di Ovada, e con Pino Pusateri, che poi a causa della questione di Pernigotti è caduto un po’ in disgrazia nel partito. Intanto alla cascina Fisco era arrivata della gente, due o tre foresti, uno si è fino sposato in una cascina lì vicino, ed erano dei partigiani. Noi gli portavamo da mangiare, ma poi a un certo punto sono spariti. Il 14 febbraio sono entrato ufficialmente nei partigiani tramite Ravera. Eravamo quattro o cinque, e la prima notte l’abbiamo passata in un cascinotto vicino al Roverno, dove ci tenevano il fieno quelli di Seruggia. Al mattino, quando ci siamo svegliati, avevamo la neve nella schiena: era nevicato! Di lì poi siamo andati a Campelè, ai Zelli, finché abbiamo sentito un altolà: erano i partigiani che stavano al Brignoleto.

Ci hanno portati alla cascina, e mi ricordo che quella sera stessa è arrivato un prigioniero, il segretario politico del fascio di Casaleggio, uno che aveva dato, assieme a degli altri, tipo i Repetto di Mascatagliata, quelli che c’avevano la distilleria, i soldi ai fascisti per comprare le prime armi nel ’22. Era un uomo grande, con un cappello largo che sembrava un cow boy, tanto grande che per entrare in casa ha dovuto abbassarsi. L’hanno ucciso l’indomani, ma vederlo non mi ha fatto nessun effetto. Ci hanno messo tutti lì fuori, e ci hanno fatto fare la fossa a me e a un altro”. Come ha scritto Gianni Repetto, l’esperienza partigiana è stata “l’evento umano e sociopolitico più coinvolgente e interessante della storia italiana del novecento, l’unico degno, nonostante le inevitabili contraddizioni, ma in forza anche di esse, di assurgere a principio fondante della nostra democrazia. Senza la Resistenza al nazifascismo gli italiani sarebbero ancora alla ricerca di un’identità che, nel ventennio fascista, sfociò nella barbarie della dittatura”.